LA ROMAGNA DELLE EMOZIONI

05 marzo 2013   20:00  
Conviviale con signore

Straordinaria serata al Club. Di quelle che segnano l’annata di un Presidente e quindi grazie ad Alberto per averla proposta e ad Arturo Menghi per averci garantito un relatore di questo livello e con questa preparazione su un tema che solo apparentemente guarda al passato.
L’argomento è la Romagna, con la tesi del Prof. Roberto Balzani sulla definizione di identità romagnola. Lontana, molto, da quella rivendicata dal Movimento per l’Autonomia della Romagna in questi decenni, quasi afflosciatasi nel momento topico perché, per dirla con le parole dell’attuale sindaco di Forlì… “troppo orientata al passato e poco attenta a indicare una strada per il futuro”. E se lo dice un notabile di quella che il MAR considera la culla della Romagna… c’è da pensarci sopra.
Il suo libro ‘La Romagna’, tutto dedicato all’identità romagnola, ha fatto parecchio arrabbiare chi ragionava (e ragiona) guardando all’indietro.
Balzani è ordinario di Storia contemporanea al polo ravennate dell’Università di Bologna e dal 2009 è sindaco di Forlì. E’ politico in grande ascesa, è considerato uno degli astri nascenti del PD e riscuote oggi il frutto di battaglie condotte spesso anche contro il volere del suo partito. Valga per tutte quella per contrastare la fusione fra Hera e Acegas.
Il punto di partenza è una domanda: può una identità culturale riuscire a tramutarsi in un'organizzazione amministrativa? Quale sia l’identità lo ha spiegato con molta chiarezza: l’organizzazione è il futuro possibile a patto che la tradizione non sia adorazione della cenere, ma custode del fuoco, come disse Gustav Mahler.
Partiamo dall’inizio di una terra che era abitata da contadini, conoscitori del loro campo e senza saperi sulla geografia di ciò che li circondava. Qualcosa, poco di più, sapevano i notabili che circolavano per scambiare merci. A metà del 1800 le città più importanti erano Faenza e Forlì. Ma erano piccole. Le comunità, dialettofone, erano isolate, non avevano la capacità di astrazione per leggere la geografia. Quindi le cartine erano ‘amministrative’. Fino al 1894, quando fu composta la prima carta che teneva conto della cultura della Romagna.
Altra traccia, quella messa insieme da Patrizio Placucci, segretario municipale a Forlì, che accolse molto materiale a stampa (notificazioni, proclami, circolari) del periodo napoleonico, confluito poi nella Biblioteca comunale. Nel 1811 durante il periodo napoleonico, la Direzione Generale dell'Istruzione Pubblica del Regno Italico promosse un'inchiesta sulle usanze nelle campagne forlivesi. Dopo la restaurazione del dominio pontificio, Placucci raccolse i risultati dell'inchiesta e li pubblicò nel volume Usi e pregiudizi dei contadini di Romagna - operetta serio-faceta, "a sollazzo di chi si apprestasse a leggerla e specialmente de' villeggianti". In quella raccolta cominciavano a delinearsi i simboli capaci di unire la Romagna, quindi non più solo politica ma la descrizione di una realtà sociale. Siamo alla vigilia del ventesimo secolo… ed è l’inizio di una riflessione sulla romagnalità.
Parliamo di una terra che dagli influssi napoleonici aveva tratto una passione per le ‘professioni libere’ valorizzate dall’invasore e per il quale rappresentavano ‘il blocco di granito’.
Orfano di Napoleone, quel ‘blocco di granito’ romagnolo non si sbriciolò con la sovranità dello Stato Pontificio, ma da esule si cementò ulteriormente, più attratto dall’organizzazione della società che del condottiero. Nacquero i carbonari, che formarono una società parallela a quella della Chiesa, non militari come accadde al Sud. Furono quei fuoriusciti a riconoscersi romagnoli per stare uniti, mentre non ri riconoscevano tali quando vivevano in Romagna, peraltro denominazione che richiama a Roma, ma determinata quando ‘Roma’ non c’era più. Durante il Risorgimento furono protagonisti di una vera e propria cultura romagnola. Tutta questa tradizione viene sintetizzata da Aldo Spallicci, medico chirurgo, parlamentare italiano nonché cultore e promotore dell'identità e delle tradizioni popolari della Romagna, con la sua rivista ‘La piè’.
A seguire, tutto questo patrimonio viene esaltato da Benito Mussolini, che nel Ventennio raccoglie ciò che emoziona e unisce, sommando altri simboli (ad esempio il Rubicone identificato nel fiume di Savignano per decreto!), per determinare la romagnolità, al di là dei campanili. Tutto ciò viene ben raccontato da Antonio Beltramelli nella sua biografia del Duce. E’ una Romagna di simboli che uniscono al di sopra dei campanili, ai quali i romagnoli erano (e sono) comunque fedelissimi.
Dopo la Guerra, il baricentro della romagnolità si sposta dal forlivese al riminese, territorio più pronto a capire la modernizzazione e l’innovazione (si dice oggi). Passa di mano il testimone. L’asse Santarcangelo-Rimini diventa il nuovo fulcro. E’ qui, dal secondo Novecento, la capitale. Qui, secondo Balzani, pecca il MAR, nell’ancorarsi ad un territorio che ha visto subentrare il nuovo.
“Ecco perché dico che bisogna custodire il fuoco e non adorare la cenere”. Oggi, soprattutto i più giovani, si sentono a casa loro in tutta la Romagna ed è questo vento che va alimentato, abbandonando logiche da feudalesimo politico . “Il futuro di questa terra dalle grandi potenzialità è nel superare velocemente questa fase ibrida. Io mi sento romagnolo di cultura riminese e la cultura di questa terra sul mare è più vicina a quella delle nuove generazioni. Dobbiamo essere degni di questa tradizione. La prima cosa da fare è riscoprirci, perché manca una fotografia attuale della Romagna. Abbiamo bisogno di condividere la contemporaneità per essere empatici. E’ un ruolo preciso per i notabili, che devono fare i primi passi. Riconosciamoci di più e lavoriamo insieme”. Applausi. Ci sia consentito, al sindaco di Forlì più che all'eccellente professore.

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