CRONACHE MALATESTIANE: FELLINI E I RIMINESI. IL PORTO IN AMARCORD

08 novembre 2013   00:00  

L’altra sera, al Teatro degli Atti, Sergio Zavoli, dopo la proiezione del suo commovente “ In morte di Federico Fellini”, ci ha ricordato che il “pregiudizio” di chi considera il Regista “snobbato”, dalla propria Città, risulta smentito, una volta per tutte dal sincero dolore, dalle lacrime, dalle migliaia di fazzoletti che “imbiancarono la piazza come un immenso volo di gabbiani” quando, vent’anni fa, quarantamila riminesi seguirono il corteo funebre del “loro” Federico. Quei “rustici” riminesi che non riescono mai ad esternare i propri sentimenti in presenza di coloro che amano, con ciò alimentando il colossale equivoco di chi, pervicacemente, continua a scambiare per invidia o indifferenza, ciò che in noi è soltanto pudore e riservatezza. Zavoli ha anche opportunamente ricordato, per quanto riguarda l’altrettanto infondato stereotipo del Regista “avulso” dalla sua gente, che fu lo stesso Fellini ad affermare “in tutta la mia vita non ho fatto altro che girare un film sul mio paese”. Non solo in Amarcord. Non solo nei Vitelloni. C’è Rimini, assurta a simbolo della creativa, geniale, universale provincia in tutta l’opera di Federico. E dunque c’è Federico, non può non esserci, nel cuore dei  Riminesi, Che, in dialetto, non sanno dire “t’amo”, ma al massimo e forse soltanto una volta, nella vita : “At voi ben”.

 
Quando nel 1973 assistetti alla prima proiezione a Rimini di “Amarcord”, ci fu un punto che mi colpì e mi commosse profondamente.
La madre di Titta è morta e lui, dopo i funerali, si ritrova solo, con il suo dolore, sulla “palata” del Porto.
Mi ero rivisto in quella scena. Perché dieci anni prima, quando mio padre mi aveva lasciato, mi ero comportato allo stesso modo. E se durante la cerimonia funebre, nonostante fossi poco più di un ragazzo, non avevo pianto, lo feci dopo, verso sera, vicino al faro del molo di levante con un singhiozzo rauco e strano, che mi venne fuori, non so come,dopo tanti anni di ciglio asciutto.
Credo che l’esperienza rievocata dal grande Regista possa accomunare la maggior parte dei riminesi, attratti come da una calamita, nei momenti più tragici ma anche più gioiosi della vita, da quella punta estrema che si affaccia sull’immensità del mare.
Nel film il Porto viene rievocato più volte. All’inizio, quando la primavera si annuncia con le “manine”, i pollini dei pioppi che volano in tutte le direzioni, e vediamo l’”avvocato” (quello dalla facile retorica) solo e finalmente silenzioso, in cima alla “palata, accanto alla sua bicicletta”, circondato dai piccoli batuffoli portati fin lì dal vento.
In una successiva rapidissima sequenza ecco “Scurezza” ‘di Corpolò, il motociclista esibizionista che già avevamo visto piombare sul “Corso” subito dopo la “fogaraccia” in Piazza , filare come una freccia in sella alla sua potente Guzzi lungo la banchina, deserta, del molo di ponente.
Appare ancora, il Porto Canale, quando stanno per salpare i battelli diretti verso il mare aperto in attesa del passaggio del “Rex”. In questa scena, si vedono, per la prima e unica volta, le due “palate” con i rispettivi fari. Ed è anche l’unica sequenza in cui i due Moli, anziché far da sfondo ad un unico solitario personaggio, accolgono una vera folla di “borghigiani” diretti verso i vari punti d’imbarco.
Pochissimi fotogrammi, ma estremamente suggestivi, mostrano il Porto annegato nella nebbia, Qui, affacciati sulla prora di un peschereccio fantasma, due marinai di cui si intravede a malapena il busto, ascoltano, in silenzio, le fanfaronate di Biscein, il venditore di brustolini.
Infine, vediamo Titta, immobile, di spalle, sulla Punta del Molo di levante, immerso nel suo dolore, distratto poi dal ritorno delle “manine” che, così come nella sequenza iniziale avevano circondato l’”Avvocato”, danzano ora attorno a lui quasi a ricordargli che la primavera e con essa la Vita, sta ritornando. E che, da stagione a stagione, un anno (quello che scandisce i ritmi del capolavoro felliniano) è ormai trascorso.
Quelle “manine” si spostano, subito dopo, attorno a tutti i personaggi del film che si ritrovano nella allegra brigata di amici che festeggia, attorno a una lunghissima tavolata sul litorale, il matrimonio della Gradisca col suo Carabiniere. E nel finale, quando gli sposi se ne sono andati e sulla scena rimane soltanto, dimentico di tutto e immerso nella sua musica, il fisarmonicista cieco, ecco, tra le grida dei ragazzini che si perdono in lontananza, l’esile, quasi indistinta vocina di uno di loro: “Andiamo a pescare al Porto?”.
Sono le ultime parole del film.
Il Porto. Un simbolo, un punto di riferimento, un luogo dell’anima.
Per Federico e per tutti i Riminesi.
Compreso quel bambino di tanti anni fa che, con la “prama” arrotolata attorno all’indice, un pezzo di piombo sotto l’amo a toccare il fondo e qualche “poveraccia” per esca, andò, anche lui, con gli amici, “a pescare i paganelli al porto”,
 
 

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